Chiesa di Dierico

Chiesa di Santa Maria Maggiore

Dierico

Non ci sono pervenute notizie sull’origine della chiesa che dipendeva anticamente dalla Pieve di San Floriano, dipendenza che si concluse all’inizio del XVI secolo (1533). Venti anni dopo (1553) don Floreano Speciariis, forse nativo di Dierico della chiesa di San Vito di Paularo. Solo nel 1737 Dierico che da decenni esigeva un sacerdote adducendo come valide ragioni la distanza di un paio di chilometri (1 miglio e più ) da Paularo e la strada spesso inagibile per le piene del torrente Chiarsò, lo otteneva con decreto del patriarca.

La chiesa di Dierico, già filiale di San Floriano e poi della parrocchia di Paularo d’Incaroio, fu eretta definitivamente in Vicaria autonoma il 23 luglio 1927.
La parrocchia fu istituita infine nel 1952.

Dell’intitolazione a S. Maria Maggiore non si quasi nulla. In Dierico il culto di S. Michele è documentato tra l’altro dalla statua nell’altare del Tironi, e S. Michele potrebbe essere stato il titolare della chiesa antica di Dierico, anche in considerazione che spesso le intitolazioni iniziali dedicate a San Michele sono state  sostituite in seguito con quelle a Santa Maria.

Dierico è d’altra parte nota anche per il culto di San Rocco, che come tutti sanno veniva invocato contro la peste nei secoli passati e che ancor oggi è venerato come patrono.

Affidandoci però alla certezza delle fonti documentali, sappiamo che il 9 maggio 1507, nel corso della visita pastorale, compiuta su incarico del patriarca Domenico Grimani, il vescovo Gerolamo De Franceschi consacrò e dedicò a Maria la chiesa del villaggio di Dierico, già dotata di due altari nei quali erano state inserite reliquie.

Storia dell’edificio

La costruzione può essere fatta risalire al Basso Medioevo, forse coeva con la chiesa di San Vito, Modesto e Crescenzia di Paularo.

Le caratteristiche della chiesa antica, che è stata in gran parte distrutta nel corso degli interventi di restauro e di ampliamento, sono in parte ricostruibili grazie alla descrizione effettuata da Agostino Bruno di Tolmezzo, vicario patriarcale nel corso della visita del 1602. Dalla sua relazione possiamo conoscere le dimensioni: «La chiesa ha una navata aggiunta dalla parte del campanile, così che in larghezza si estende per 7 passi … in altezza 6 passi circa, in lunghezza insieme con la cappella maggiore 9 passi». All’epoca la chiesa aveva già, come ora, tre altari.

Il vicario ammirò l’altare maggiore dorato che è quello di cui oggi noi parleremo. Alle pareti vi erano affreschi, ma parti delle pareti erano state coperte di bianco. Esisteva il campanile, ma non il cimitero (i defunti venivano portati a S. Vito di Paularo).

Come di consueto, le preoccupazioni del vicario sono rivolte durante la visita pastorale agli elementi più preziosi dal punto di vista teologico, come dettava il Concilio di Trento concluso circa 50 anni prima, ma non mancano annotazioni di altro genere. Si apprezza così la pisside in rame dorato che conserva la eucaristia e il vasetto in argento per la conservazione dell’olio dell’estrema unzione riposto in un armadietto inserito in una nicchia nella muratura affrescata (in pariete ornata picturis).

La costruzione del campanile è del 1577 e fu eseguita con il supporto delle maestranze di Illegio, stando alle testimonianze del tempo. Eccone la descrizione contenuta nella citata visita pastorale «Turris campanili est pulchre edificata lapidea cum pinaculo ligneo bene constructo, et cruce ferrea ita ut tota turris cum pinaculo sit alta 30 pass. In ea sunt due campanee satis convenientis, tectum vere ecc.ae exterius est ex materia lignea bene confectu». Il solido campanile di S. Maria Maggiore svetta tuttora, anche se con una cuspide di rame collocata dopo un recente intervento di consolidamento.

Il vicario non manca, nel corso della visita pastorale, di segnalare un’opera d’arte quale l’altare ligneo del Tironi che dal 1528 illumina di riflessi dorati l’interno della chiesa di Dierico. Così viene descritto “Altare maius super quo osservatur sacramentum eucharistiae et est totum lapideum auctum ex ligno lateribus decenter satis amplum, et latum, cum scabello u] indecenti cum icona ptingente (= vicina) pulcre elaborata cum varijs imaginibus insculptis ligneis acuratis inter quas est imago Beatissime Viriginis”.

A cavallo fra il XVI e il XVII secolo, precisamente al 1598, si fanno risalire con sicurezza gli affreschi dell’Urbanis per via della scoperta, che don Antonio Di Gallo fece nel 1909: fu lui a individuare l’iscrizione esistente sopra la porta della Sacrestia che recava la data con esattezza. Ecco come si presentano gli affreschi alla visita pastorale del 1602: Fornix capelle maioris ubi est hoc altare fuit repert decenter picta in varijs imaginibus sanctorum bene dispositis sed adsunt ballaustra. Bruno delle varie chiese che visita durante l’autunno del 1602, segnala sempre i dipinti a fresco sulle pareti, mentre per gli altari si limita a citare quelli in legno scolpito e dorato, senza mai esprimere valutazioni di ordine estetico.

Come avviene in tutte le chiese gli altari sono strettamente collegati alle confraternite, sulle quali viene chiesta relazione nel corso della visita. A Dierico esistevano le fraterne del SS. Sacramento, quella di S. Rocco e quello di Santa Maria Vergine. Il patriarca aveva poi istituito quella del SS. Corpo di Cristo.

Una statua lignea della Beata Vergine occupava l’alzata. L’imago di questa Beatissma Vergine è da ritenersi quella che oggi si trova in una nicchia della parete di destra dell’abside, probabilmente venerata fin da tempi molto remoti. E dopo gli altari si ricorda che un Crocefisso ligneo pende da una trave della struttura portante, illuminato da una lampada di rame sempre accesa, posta davanti all’altare maggiore.

Agostino Bruno segnala anche il problema della mancanza di un cimitero. In occasione di un’alluvione o di una nevicata eccezionale le spoglie rimanevano infatti nel paese fino alla fine dell’emergenza, spesso per diversi giorni. Dierico dovette attendere fino al 1743 la possibilità di seppellire i defunti nello spazio che circonda la chiesa, a seguito di un decreto del patriarca Daniele Dolfin. La concessione restò in vigore fino al 1915 quando il comune di Paularo, per motivi igienico-sanitari, allestì l’attuale cimitero.

Nei secoli XVIII e XIX le condizioni dell’edificio, per via delle frequenti ed eccezionali piene del sottostante Chiarsò e degli altrettanto frequenti terremoti, peggiorarono rapidamente. Le esondazioni del torrente [erroneamente indicato con il nome di Chiarisso] erano state ben considerate nella relazione di Agostino Bruno che le considera tali da isolare spesso il paese, costringendo gli abitanti a lunghi e pericolosi percorsi; non solo, sarebbero anche la causa dell’isolamento economico della comunità che non può instaurare rapporti commerciali con gli altri insediamenti della valle. Non si trattava di un caso isolato; tutta la Carnia era spesso colpita da fenomeni alluvionali legati ad intense precipitazioni. Nel 1692 anche Dierico e la sua chiesa subirono gravi danni.

Negli ultimi decenni del 1700 la chiesa madre di San Vito a Paularo era stata completamente rifatta grazie alla munificenza dei Linussio che avevano affidato la ricostruzione agli Schiavi che avevano già agito a Tolmezzo, erigendo il duomo a sostituire la piccola, vecchia ed inadeguata pieve di San Martino. Inoltre avevano costruito l’elegante palazzo di Iacopo Linussio e la annessa cappella gentilizia.

Passò un secolo prima che nel 1870 la comunità di Dierico decidesse di intervenire a consolidare ed ingrandire la chiesa di Santa Maria Maggiore. Il corpo centrale della chiesa risultava assai compromesso e fu necessario procedere alla sua demolizione. Erano gli anni in cui a Villafuori di Paularo, il nobile Giacomo Calice, uomo d’affari molto attivo, affiancava alle sue molteplici attività anche quella di commerciante di mobili d’epoca e di impresario edile. In società con Dionisio Craighero di Ligosullo si impegnò nella costruzione del castello di Valdajer. L’impresa edile, che era quella di Egidio Gerometta, nipote della moglie, si avvalse del progetto del costruttore gemonese Girolamo D’Aronco e proprio a questi va ascritto l’utilizzo del linguaggio neomedievale, in cui confluirono elementi gotici e romanici.

D’Aronco, padre del più celebre architetto Raimondo, aveva sperimentato con successo il nuovo codice architettonico nella chiesa dei Ss. Ilario e Taziano a Rizzolo e sarebbe divenuto uno dei principali esponenti di questo orientamento artistico. Nel castello di Valdajer emergeva con opulenza lo stile neogotico che D’Aronco avrebbe utilizzato negli anni successivi anche per le chiese di S. Maria Maggiore di Pontebba, S. Martino a Interneppo, per il duomo di Rivignano e altre. Il costruttore gemonese certamente fu ospitato durante i lavori a Valdajer a Casa Calice dove lasciò disegni e lettere che sono conservate nell’archivio Calice (busta 6, fasc. 9.12).

Con molta probabilità fu in questo periodo (1874-1881) che Girolamo D’Aronco si occupò dell’ampliamento della chiesa di Dierico predisponendo il progetto: a lui va riconosciuta l’impronta neogotica della costruzione che affiancò l’antica chiesa di S. Maria Maggiore (riconoscibile nell’attuale abside). L’odierno corpo architettonico a croce greca fu realizzato negli anni 1882-84.
Da Dierico si poteva così ammirare la grandiosa costruzione che, sostenuta da possenti strutture murarie, dominava la conca di Paularo.

L’edificio è quindi una mescolanza di stili per ciò che resta della cappella originaria del Quattrocento e per le aggiunte posteriori, in particolare quelle del XIX secolo. Il risultato non è perfettamente armonioso, ma la forzatura dell’architettura del D’Aronco si fa poco evidente quando al visitatore due preziose opere d’arte impongono l’attenzione: ci si riferisce all’altare ligneo di Antonio Tironi, stupendo esempio di arte “prerinascimentale” in Carnia, e ai preziosi affreschi di Giulio Urbanis, allievo sandanielese di Pomponio Amalteo, che ha rinnovato alla fine del XVI secolo un altro ciclo pittorico più antico che risale al Quattrocento.

Nel secolo scorso il campanile, e in particolare la cuspide, la costruzione dei quali risaliva al XVI secolo (1573-1577), esigevano interventi di restauro, perché diventavano sempre più pericolosi e fatiscenti. Nel 1910 veniva abbattuta la cuspide che ormai era minacciosamente inclinata. La Grande Guerra recò altri danni, non ultimo la requisizione da parte degli austroungarici delle campane, così come era accaduto in molte chiese dei territori occupati.

Le campane furono sostituite con delle nuove nel 1925. La cuspide del campanile e altri lavori necessari (come la sostituzione del vecchio orologio con quello predisposto dalla ditta Solari di Pesariis) vennero invece portati a termine solamente nel secondo dopoguerra.

Nel 1962 fu promosso il ripristino dell’ancona del Tironi. Dopo il terremoto del 1976, sfruttando la necessità di riattare l’edificio giudicato gravemente danneggiato, il parroco don Verzegnassi fece riportare l’abside allo stato primitivo, giovandosi delle competenze della Sovrintendenza alle Belle Arti che tolse l’intonaco che copriva gli affreschi.

Storia dell’edificio

La costruzione può essere fatta risalire al Basso Medioevo, forse coeva con la chiesa di San Vito, Modesto e Crescenzia di Paularo.
Le caratteristiche della chiesa antica, che è stata in gran parte distrutta nel corso degli interventi di restauro e di ampliamento, sono in parte ricostruibili grazie alla descrizione effettuata da Agostino Bruno di Tolmezzo, vicario patriarcale nel corso della visita del 1602. Dalla sua relazione possiamo conoscere le dimensioni: «La chiesa ha una navata aggiunta dalla parte del campanile, così che in larghezza si estende per 7 passi … in altezza 6 passi circa, in lunghezza insieme con la cappella maggiore 9 passi». All’epoca la chiesa aveva già, come ora, tre altari.

Il vicario ammirò l’altare maggiore dorato che è quello di cui oggi noi parleremo. Alle pareti vi erano affreschi, ma parti delle pareti erano state coperte di bianco. Esisteva il campanile, ma non il cimitero (i defunti venivano portati a S. Vito di Paularo).

Come di consueto, le preoccupazioni del vicario sono rivolte durante la visita pastorale agli elementi più preziosi dal punto di vista teologico, come dettava il Concilio di Trento concluso circa 50 anni prima, ma non mancano annotazioni di altro genere. Si apprezza così la pisside in rame dorato che conserva la eucaristia e il vasetto in argento per la conservazione dell’olio dell’estrema unzione riposto in un armadietto inserito in una nicchia nella muratura affrescata (in pariete ornata picturis).

La costruzione del campanile è del 1577 e fu eseguita con il supporto delle maestranze di Illegio, stando alle testimonianze del tempo. Eccone la descrizione contenuta nella citata visita pastorale «Turris campanili est pulchre edificata lapidea cum pinaculo ligneo bene constructo, et cruce ferrea ita ut tota turris cum pinaculo sit alta 30 pass. In ea sunt due campanee satis convenientis, tectum vere ecc.ae exterius est ex materia lignea bene confectu». Il solido campanile di S. Maria Maggiore svetta tuttora, anche se con una cuspide di rame collocata dopo un recente intervento di consolidamento.

Il vicario non manca, nel corso della visita pastorale, di segnalare un’opera d’arte quale l’altare ligneo del Tironi che dal 1528 illumina di riflessi dorati l’interno della chiesa di Dierico. Così viene descritto “Altare maius super quo osservatur sacramentum eucharistiae et est totum lapideum auctum ex ligno lateribus decenter satis amplum, et latum, cum scabello u] indecenti cum icona ptingente (= vicina) pulcre elaborata cum varijs imaginibus insculptis ligneis acuratis inter quas est imago Beatissime Viriginis”.

A cavallo fra il XVI e il XVII secolo, precisamente al 1598, si fanno risalire con sicurezza gli affreschi dell’Urbanis per via della scoperta, che don Antonio Di Gallo fece nel 1909: fu lui a individuare l’iscrizione esistente sopra la porta della Sacrestia che recava la data con esattezza. Ecco come si presentano gli affreschi alla visita pastorale del 1602: Fornix capelle maioris ubi est hoc altare fuit repert decenter picta in varijs imaginibus sanctorum bene dispositis sed adsunt ballaustra. Bruno delle varie chiese che visita durante l’autunno del 1602, segnala sempre i dipinti a fresco sulle pareti, mentre per gli altari si limita a citare quelli in legno scolpito e dorato, senza mai esprimere valutazioni di ordine estetico.
Come avviene in tutte le chiese gli altari sono strettamente collegati alle confraternite, sulle quali viene chiesta relazione nel corso della visita. A Dierico esistevano le fraterne del SS. Sacramento, quella di S. Rocco e quello di Santa Maria Vergine. Il patriarca aveva poi istituito quella del SS. Corpo di Cristo.

Una statua lignea della Beata Vergine occupava l’alzata. L’imago di questa Beatissma Vergine è da ritenersi quella che oggi si trova in una nicchia della parete di destra dell’abside, probabilmente venerata fin da tempi molto remoti. E dopo gli altari si ricorda che un Crocefisso ligneo pende da una trave della struttura portante, illuminato da una lampada di rame sempre accesa, posta davanti all’altare maggiore.

Agostino Bruno segnala anche il problema della mancanza di un cimitero. In occasione di un’alluvione o di una nevicata eccezionale le spoglie rimanevano infatti nel paese fino alla fine dell’emergenza, spesso per diversi giorni. Dierico dovette attendere fino al 1743 la possibilità di seppellire i defunti nello spazio che circonda la chiesa, a seguito di un decreto del patriarca Daniele Dolfin. La concessione restò in vigore fino al 1915 quando il comune di Paularo, per motivi igienico-sanitari, allestì l’attuale cimitero.

Nei secoli XVIII e XIX le condizioni dell’edificio, per via delle frequenti ed eccezionali piene del sottostante Chiarsò e degli altrettanto frequenti terremoti, peggiorarono rapidamente. Le esondazioni del torrente [erroneamente indicato con il nome di Chiarisso] erano state ben considerate nella relazione di Agostino Bruno che le considera tali da isolare spesso il paese, costringendo gli abitanti a lunghi e pericolosi percorsi; non solo, sarebbero anche la causa dell’isolamento economico della comunità che non può instaurare rapporti commerciali con gli altri insediamenti della valle. Non si trattava di un caso isolato; tutta la Carnia era spesso colpita da fenomeni alluvionali legati ad intense precipitazioni. Nel 1692 anche Dierico e la sua chiesa subirono gravi danni.

Negli ultimi decenni del 1700 la chiesa madre di San Vito a Paularo era stata completamente rifatta grazie alla munificenza dei Linussio che avevano affidato la ricostruzione agli Schiavi che avevano già agito a Tolmezzo, erigendo il duomo a sostituire la piccola, vecchia ed inadeguata pieve di San Martino. Inoltre avevano costruito l’elegante palazzo di Iacopo Linussio e la annessa cappella gentilizia.

Passò un secolo prima che nel 1870 la comunità di Dierico decidesse di intervenire a consolidare ed ingrandire la chiesa di Santa Maria Maggiore. Il corpo centrale della chiesa risultava assai compromesso e fu necessario procedere alla sua demolizione. Erano gli anni in cui a Villafuori di Paularo, il nobile Giacomo Calice, uomo d’affari molto attivo, affiancava alle sue molteplici attività anche quella di commerciante di mobili d’epoca e di impresario edile. In società con Dionisio Craighero di Ligosullo si impegnò nella costruzione del castello di Valdajer. L’impresa edile, che era quella di Egidio Gerometta, nipote della moglie, si avvalse del progetto del costruttore gemonese Girolamo D’Aronco e proprio a questi va ascritto l’utilizzo del linguaggio neomedievale, in cui confluirono elementi gotici e romanici.

D’Aronco, padre del più celebre architetto Raimondo, aveva sperimentato con successo il nuovo codice architettonico nella chiesa dei Ss. Ilario e Taziano a Rizzolo e sarebbe divenuto uno dei principali esponenti di questo orientamento artistico. Nel castello di Valdajer emergeva con opulenza lo stile neogotico che D’Aronco avrebbe utilizzato negli anni successivi anche per le chiese di S. Maria Maggiore di Pontebba, S. Martino a Interneppo, per il duomo di Rivignano e altre. Il costruttore gemonese certamente fu ospitato durante i lavori a Valdajer a Casa Calice dove lasciò disegni e lettere che sono conservate nell’archivio Calice (busta 6, fasc. 9.12).

Con molta probabilità fu in questo periodo (1874-1881) che Girolamo D’Aronco si occupò dell’ampliamento della chiesa di Dierico predisponendo il progetto: a lui va riconosciuta l’impronta neogotica della costruzione che affiancò l’antica chiesa di S. Maria Maggiore (riconoscibile nell’attuale abside). L’odierno corpo architettonico a croce greca fu realizzato negli anni 1882-84.
Da Dierico si poteva così ammirare la grandiosa costruzione che, sostenuta da possenti strutture murarie, dominava la conca di Paularo.

L’edificio è quindi una mescolanza di stili per ciò che resta della cappella originaria del Quattrocento e per le aggiunte posteriori, in particolare quelle del XIX secolo. Il risultato non è perfettamente armonioso, ma la forzatura dell’architettura del D’Aronco si fa poco evidente quando al visitatore due preziose opere d’arte impongono l’attenzione: ci si riferisce all’altare ligneo di Antonio Tironi, stupendo esempio di arte “prerinascimentale” in Carnia, e ai preziosi affreschi di Giulio Urbanis, allievo sandanielese di Pomponio Amalteo, che ha rinnovato alla fine del XVI secolo un altro ciclo pittorico più antico che risale al Quattrocento.

Nel secolo scorso il campanile, e in particolare la cuspide, la costruzione dei quali risaliva al XVI secolo (1573-1577), esigevano interventi di restauro, perché diventavano sempre più pericolosi e fatiscenti. Nel 1910 veniva abbattuta la cuspide che ormai era minacciosamente inclinata. La Grande GueStoria e principali opere delle Chiese della Parrocchia dei Santi Vito Modesto e Crescenzia Martiri di Paularo.rra recò altri danni, non ultimo la requisizione da parte degli austroungarici delle campane, così come era accaduto in molte chiese dei territori occupati.

Le campane furono sostituite con delle nuove nel 1925. La cuspide del campanile e altri lavori necessari (come la sostituzione del vecchio orologio con quello predisposto dalla ditta Solari di Pesariis) vennero invece portati a termine solamente nel secondo dopoguerra.

Nel 1962 fu promosso il ripristino dell’ancona del Tironi. Dopo il terremoto del 1976, sfruttando la necessità di riattare l’edificio giudicato gravemente danneggiato, il parroco don Verzegnassi fece riportare l’abside allo stato primitivo, giovandosi delle competenze della Sovrintendenza alle Belle Arti che tolse l’intonaco che copriva gli affreschi.

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Gli affreschi di Giulio Urbanis

Giulio Urbanis era nato a San Daniele nel 1640 ca. e vi morì nel 1613. La sua formazione pittorica è segnata dalla frequentazione della bottega di Pomponio Amalteo, ma nel suo catalogo le tracce dei modi di Amalteo e quindi del Pordenone, sono labili. Infatti Urbanis preferì, nei molti lavori eseguiti in Friuli e in Carnia, affidarsi a una sorta di recupero della tradizione locale tardo quattrocentesca, anche per soddisfare le particolari richieste di una committenza di matrice religiosa dal gusto artistico attardato e legata a una cultura periferica ormai superata.

Del 1580 circa sono gli affreschi nella pieve di S. Floriano a Illegio di Tolmezzo, dedicati all’Annunciazione, Santi, Profeti e Storie di san Floriano. Datano 1582 gli interventi decorativi a Zuglio, con Scene Evangeliche lungo le pareti ed Evangelisti, Profeti e Padri della Chiesa nel soffitto della chiesa di San Pietro in Carnia, mentre nella chiesa di Santa Maria in Monte l’Annunciazione, Santi ed Evangelisti. A Rivalpo e Valle, nella chiesa di S. Martino, intervenne nel 1584-85. Sulla volta del presbiterio sono a lui attribuiti 9 superstiti affreschi raffiguranti Santi, Evangelisti e l’Eterno Padre (i restanti sono di Giuseppe Barazzutti di Gemona che li eseguì nel 1925).

Sempre in Carnia a Fresis di Enemonzo, nel presbiterio della chiesa di S. Giuliana, in cui la volta è decorata con Padri e Dottori della Chiesa, Profeti ed Evangelisti inseriti dentro dei tondi e sulle pareti gli Apostoli, Santi e Scene evangeliche (1588). Del 1598 sono invece le decorazioni nella parrocchiale di Dierico di Paularo.